Spesso nel corso della mia carriera di insegnante mi sono sentita dire: non puoi far leggere i classici ai ragazzi perché tanto non possono capirli. Sono troppo giovani! Devi aspettare i quaranta o i cinquant’anni per apprezzare Leopardi e Manzoni. Ecco perché voglio raccontarvi una cosa. Quando ero all’università, per pagarmi gli studi davo ripetizioni. Mi mandavano i ragazzi che avevano un’insufficienza in Italiano, Storia, Latino o Filosofia.
Ricordo che le mie prime lezioni furono un disastro. Studiavamo insieme, e quando chiedevo loro: “Che cos’hai capito?”, mi dicevano che Verga era nato il giorno x e morto il giorno y, che D’Annunzio apparteneva alla corrente del Decadentismo, che Leopardi era un “pessimista cosmico”: mi ripetevano mnemonicamente per filo e per segno quello che trovavano scritto sul libro di testo. Io, però, avrei voluto trasmettere a questi ragazzi qualcosa di più.
Così decisi di cambiare metodo. Avrei usato parole mie per descrivere loro questi autori. Per preparare le lezioni copiai interi brani tratti dalle migliori introduzioni critiche dei classici; riempii un intero quadernino di appunti, spiegazioni e commenti pieni di bellissime frasi, così almeno mi parvero allora, su Leopardi, Verga, Manzoni. Le volte successive parlai per più di un’ora, la mia voce era piena di passione, ma quando alla fine chiesi ai ragazzi che cosa avessero capito, mi resi conto che non avevo ottenuto molto di più: avevano memorizzato le mie parole come avevano fatto con il libro di testo.
Mi sentii molto scoraggiata, e pensai che quei ragazzi, in fondo, non sarebbero mai diventati dei lettori. Non potevo far amare i classici, mi dissi, a ragazzi che faticavano a strappare la sufficienza in italiano.
Un giorno però andai da un ragazzo che abitava con la nonna ad Acilia. Mi ero portata una vecchia copia dei Canti dei Leopardi e dissi: “Leggilo. Non ad alta voce, leggilo per te, e poi dimmi che emozioni ti suscita, chi ti ricorda, a che cosa ti fa pensare”. Emozioni, ricordi, furono queste le parole magiche. E, a poco a poco, questi ragazzi cominciarono ad aprirsi.
Le poesie di Catullo divennero allora lo spunto per parlare dell’amore non corrisposto. Leggevamo della Monaca di Monza e di re Lear e parlavamo delle aspettative di padri troppi esigenti o troppo assenti. Con La metamorfosi di Kafka parlammo di come ci vedono gli altri e del perché, alle volte, ci sentiamo a disagio nella nostra pelle. Mentre leggevamo L’ultimo giorno di un condannato a morte di Hugo ci chiedevamo perché le persone uccidono, rubano, tradiscono e fanno del male.
Questi ragazzi che tutti consideravano teste vuote, agli esami presero 8 e 9. Ma non fu questo il risultato più importante: alcuni di loro hanno proseguito gli studi e ormai si stanno laureando, altri sono diventati falegnami, tecnici, commessi, altri ancora hanno lasciato il liceo perché hanno capito che volevano diventare chef o lavorare nel cinema. Tutti hanno seguito una strada differente, ma a distanza di anni mi scrivono chiedendomi: “Ehi, prof, ma non è che hai un bel libro da consigliarmi?”
INNAMORARSI DI ANNA KARENINA IL SABATO SERA
L’arte di leggere i classici in dieci brevi lezioni