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Insegnare non significa accudire, se tutto questo vuol dire avvilimento del ruolo, insignificanza della retribuzione e diminuzione del prestigio sociale

Nelle scorse ore, il mondo ha perso prematuramente una delle figure più luminose nella storia della letteratura contemporanea italiana e oltre, Michela Murgia.

Lungo il suo percorso di vita, ha abbracciato una vastità di temi con passione, tra cui la sfera dell’educazione, dimostrando particolare impegno nell’istruzione degli studenti, nella loro valutazione e nella formazione degli insegnanti. È importante ricordare il suo ruolo di docente di religione nelle scuole secondarie sarde per sei anni, essendo stata laureata in teologia. Nel 2018, ha condiviso un significativo post all’inizio dell’anno scolastico, dedicato agli studenti di entrambi i sessi:

“Ricomincia la scuola, unica culla di rivoluzione. Auguri ragazzi, auguri ragazze! Imparate il passato per difendere il futuro, progettate il presente che è già il vostro tempo, discutete tutto ciò che si può cambiare e proteggete quello che è stato cambiato per voi. Non dimenticate di imparare il congiuntivo, perché la rivoluzione non ha bisogno solo di tempo, ma anche di gente che lo sappia riconoscere. P.s. Ho modificato “declinare” con “riconoscere” per placare il flame grammaticale che stava sorgendo intorno al fatto che i verbi si coniugano e i nomi si declinano. Aggiungerei pure che le metafore si capiscono, ma diventerebbe un post grammarnazi e di nazi ne abbiamo già abbastanza in giro. Vi amo, dannati pedanti”.

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Le idee di Michela Murgia riguardo al ruolo degli insegnanti erano ben definite: “Quel che ti permette di essere chiamato maestro non è il modo unico e irripetibile in cui la tua individualità può fare la differenza, ma è quello che hai appreso: numericamente misurato, istituzionalmente certificato e sindacalmente difeso. A chi esce dall’esame di maturità si chiede cosa ha studiato e non con chi lo ha fatto, perché nel nostro sistema formativo chi insegna conta sempre molto meno di cosa viene insegnato, come se le due cose potessero essere scisse. L’obiettivo non è l’acquisizione di un titolo di studio, di un’abilitazione o di un sapere spendibile, ma la crescita umana di quella singola persona e specificamente di quella.” E aggiunge: “Insegnare non vuol dire accudire, con tutto quello che in Italia significa in termini di avvilimento del ruolo, insignificanza della retribuzione e diminuzione del prestigio sociale”

Sull’assenza delle autrici nei libri scolastici di antologia e letteratura italianam aveva dichiarato: “I primi autori assenti sono le donne: nel canone non ci sono. Questo è un tema di cui ci siamo occupate in molte, ma non in molti: la sottorappresentazione del pensiero delle donne nel canone non sembra essere un problema di completezza del canone, ma delle donne stesse. Nella mia antologia scolastica l’unica donna era Grazia Deledda, la sola che non si potesse ignorare a causa del Nobel. L’altro aspetto non riguarda tanto gli autori, quanto il dover far uscire le Lettere dalla griglia di valutazione funzionale/disfunzionale che oggi riassumiamo sotto l’idea di “competenza”. Le lauree umanistiche tecnicamente non sono funzionali proprio perché non danno competenze; ma “solo” strumenti di organizzazione del pensiero, sguardo e visione complessa, apertura mentale per progettare il non ancora progettato. Il continuo disinvestimento sulle facoltà umanistiche nasconde l’idea che tutto ciò che non dia funzionalità diretta non serva alla costruzione dell’individuo e del cittadino. Nel nuovo orientamento che vorrebbe distinguere le università in maniera qualitativa, con lauree che valgono di più o che valgono di meno, è chiaro che il grosso dei finanziamenti in questa prospettiva andrà alle facoltà scientifiche, consolidando l’idea che l’insegnamento delle Lettere non sia di alcuna utilità sociale”.

Per quanto riguarda voti e valutazione degli studenti, disse: “Nei paesi che funzionano secondo il nostro modello la lode a chi sa è data al prezzo del ludibrio altrui e questo scatena una competizione sociale da cui i paesi scandinavi cercano di tenersi lontani il più possibile, almeno formalmente. Il sistema di riconoscimento non è costruito in forma piramidale perché regge la convinzione che più in alto salirà la punta della piramide, più larga dovrà essere la base su cui si scaricherà il peso, con costi di disuguaglianza sociale infinitamente più alti del beneficio di ogni singola eccellenza. La stessa parola “eccellenza” viene guardata con sospetto, perché il più delle volte negli altri paesi viene usata per designare un’eccezione, il caso di qualcuno che ce l’ha fatta nonostante il sistema, mentre in Scandinavia lo sforzo educativo viene fatto verso il traguardo che tutti debbano potercela fare grazie al sistema”

Cinquantunenne, nativa della Sardegna, Michela Murgia si distinse come scrittrice e attivista, tracciando un’impronta indelebile nel panorama del dibattito pubblico recente. Le sue prospettive politiche e femministe fecero eco, aggiungendosi al suo impatto nel campo letterario. Nel 2006, fece un ingresso audace con “Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria”, un’autobiografia nata come blog, pubblicata da Einaudi. Qui dipinse il quadro delle sue esperienze lavorative, ispirando Paolo Virzì a creare il film “Tutta la vita davanti”, seguito poi da “Accabadora”, che meritò il Premio Campiello. Quest’opera inaugurò una serie di libri di successo, mescolando abilmente romanzi e saggi, spaziando dall’analisi religiosa alla politica, fino al contesto femminista. Tale ardore intellettuale la poneva tra le protagoniste del fervore culturale, seppur esponendosi alle critiche provenienti dalla sfera politica conservatrice, che negli ultimi anni la designò come obiettivo da contrastare.

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