Insegno nella scuola da più di trenta anni anni pur avendo, a suo tempo, intrapreso un percorso universitario (ho una laurea in Giurisprudenza) che nulla aveva a che fare, nelle mie intenzioni, con una professione legata all’insegnamento. Se oggi sono un’insegnante è per vocazione (abbiate la pazienza di permettermi di sostenerlo) e se il mio sguardo sul mondo della scuola è libero da tanti condizionamenti (per lo meno così io mi sento) è proprio per la disciplina che mi sono trovata ad insegnare, religione.
Per favore, rimanendo fuori da ogni polemica, abbiate la cortesia di lasciarmi spiegare perché insegnare questa materia mi permette di guardare alla scuola con un sano distacco e con altrettanta sana speranza, anche se un po’ “acciaccata”. Certo, anche gli anni e la maturità fanno la loro parte, ma insegnare una disciplina che è sottoposta ogni anno alla scelta di studenti e famiglie, che non dà voto, che se insegni alla scuola media inferiore ti fa stare a tutti gli esami di fine ciclo, senza però che tu possa chiedere nulla sulla tua materia, che non ha l’Invalsi, che conta e non conta… In sintesi, nella scuola ci stai come insegnante CERCANDO, per lo meno per me è così, di farlo al meglio, nel rispetto della laicità dell’Istituzione per cui lavori e della credibilità che dovresti avere come docente di religione, ma nello stesso tempo ti senti un po’ estromesso da certi meccanismi, a volte perversi (oserei dire), che attanagliano la vita del docente.
Nel corso degli anni ho scoperto una vera passione per l’insegnamento e la relazione educativa, tanto da frequentare corsi su corsi, prendermi un diploma di counselor, acquisire un master come Expert Teacher, sviluppare competenze nelle TIC ma, nello stesso tempo, ho visto una lenta e inesorabile squalifica di questa professione, al punto che tutti si sentono in diritto di puntare il dito contro i docenti, accusandoli di non essere preparati, di essere degli scansafatiche, di non saper tenere le classi, e altro ancora. Insomma, un quadro un po’ fosco, che nessuna pennellata dei vari Ministri dell’Istruzione ha saputo rendere meno grigio. Anzi, il rincorrersi dei tanti provvedimenti che riguardano la Scuola, non fa che convincermi che si continui a voler curare la polmonite con la semplice aspirina. Che poi, con tutta sincerità, non è la Scuola ad essere malata, perché il semplice fatto di aver saputo far fronte ad un evento epocale come la Pandemia, è indice di un tessuto, costituito da tanti docenti e dirigenti di buona volontà, creatività e professionalità, che tutto sommato è ancora sano.
È anche vero però che sogno una Scuola un po’ diversa, perché avverto una forte difficoltà nel rispondere alle sfide che questa epoca ci sta ponendo. Non so se ce ne siamo accorti, ma è in corso una vera e propria destrutturazione dell’Umano, non solo per l’impatto delle nuove tecnologie, ma anche a livello filosofico e sociologico e forse la vera e grande sfida che la Scuola deve assumere è propria quella di ripensarsi in funzione educativa: quale profilo di bambin*/ragazz* (scrivo così per velocizzare, senza volermi impegnare in posizione pro o contra gender) abbiamo in mente? quali abilità, conoscenze e competenze permetterebbero ai nostri studenti di costruirsi il proprio progetto di vita? qual è la strada che vogliamo percorrere?
Qualche settimana fa su Facebook Dianora Bardi, formatrice a livello nazionale e internazionale sulla didattica per competenze con le tecnologie, presidente del Centro Studi Impara Digitale e tanto altro ancora (indubbiamente persona di grande competenza, esperienza e visione), rifletteva sul fatto che nonostante investimenti incredibili sulle tecnologie e sugli arredi, i tantissimi corsi di formazione sull’uso degli strumenti, sulle metodologie etc… la scuola fosse ancora ferma.
In realtà proprio ferma ferma non è, perché, ad esempio, a parte alcuni Collegi Docenti che hanno rifiutato i finanziamenti per i progetti relativi al PNRR – Piano Scuola 4.0, tantissime scuole si stanno dando da fare per rinnovare arredi, spazi scolastici, ecc… Anche negli Istituti in cui insegno ci si è mossi per creare delle commissioni per progettare come investire questi fondi, ma in questi gruppi di lavoro ho notato e fatto notare che non si è pensato per nulla a coinvolgere qualche pedagogista e neanche agli stessi Collegi è stato chiesto che scuola volessero “costruire”.
Ho l’impressione (ma sarei ben contenta di sbagliarmi) che manchi una visione pedagogica, che ci sia un appiattimento, il più delle volte acritico e subito, verso le “mode” del momento: coding, debate, metaverso, multimedialità, ecc… e che poco si faccia per ascoltare i docenti. L’investimento serio che dovrebbe essere fatto sulla Scuola riguarda proprio loro, i docenti, perché mettere al centro lo studente vuol dire mettere al centro l’insegnante.
Perché non cambia nulla, come amaramente rileva la prof.ssa Bardi? Perché nonostante i tanti investimenti sulle nuove tecnologie aumenta la dispersione scolastica e gli studenti sono sempre più ignoranti, insofferenti e ingestibili? Si inventano varie figure (ora si parla di tutor ed esperto di orientamento, come se tutti i docenti non dovessero essere di default anche un po’ orientatori) a cui si chiede di risolvere i tanti problemi dei giovani, sobbarcandole di un impegno che va ad aggiungersi agli altri, illudendo e illudendosi che un corso di formazione di appena venti ore faccia di loro degli esperti.
Stipendi più dignitosi, no? Possibilità di organizzare la Scuola in modo diverso, neanche? Eppure come cambierebbe la situazione con il numero di alunni per classe inferiore ai 25/30. Se si potesse lavorare in compresenza, ma non solo nella modalità “uno insegna e l’altro assiste” e oltre i casi istituzionalmente previsti; se le ore di programmazione entrassero nell’orario del docente anche della scuola superiore; se si superasse il gruppo classe con una maggiore flessibilità nei percorsi ed orari scolastici; se fare l’insegnante ritornasse ad essere una professione appetibile dal punto di vista economico e di prestigio sociale. Insomma, se continuiamo a mettere toppe nuove su un vestito vecchio, nulla potrà mai cambiare. Il riferimento evangelico ci sta, visto quello che insegno, e anche quanto ho sentito in questi giorni, dopo l’accoltellamento di un’insegnante, è l’ulteriore conferma di mancanza di visione.
La Scuola può curare il disagio dei giovani, ma non è una clinica! Non è l’ingresso di psicologi nelle scuole che risolve il problema, ma è necessario ragionare di risposte a bisogni educativi ridando autorevolezza (che non può prescindere dal riconoscimento di autorità) alla figura dei docenti e svincolando le scuole da processi competitivi, anche tra gli stessi insegnanti – e con questo non nego che ci sia bisogno di riconoscere, non fittiziamente con compensi ridicoli, le competenze di chi le ha.
In sintesi, penso che una vera riforma non possa e non debba essere a costo zero, e non è nell’aggiungere nuovi impegni e nuove figure (le toppe dell’espressione evangelica) che si opera il cambiamento. Anzi, mi viene da dire per deformazione professionale che il “di più viene dal maligno”.