Alti livelli di dispersione scolastica, competenze in italiano e matematica inadeguate per metà degli studenti italiani (secondo i criteri INVALSI), percezione da parte dei giovani e delle aziende di un’inefficienza della scuola nel fornire le competenze per il mondo del lavoro, specialmente nell’ambito delle STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica), le otto competenze chiave europee che sembrano essere disattese: un panorama di una scuola ferma, non adeguata al mondo contemporaneo né al suo ruolo di formatore.
Quali le cause? La mala gestione del MIM? La scelta improvvida del MIM di investire solo nel digitale? Certo, ma non solo.
A rischio di essere impopolare, ritengo che tra i fattori che determinano questa situazione rientrino anche il sistema di insegnamento-apprendimento di noi docenti e l’aziendalizzazione della Scuola, cui si aggiunge una latitanza della famiglia come attore educativo. Ma premetto che la situazione non è sempre così deprimente, proprio se e quando almeno due dei tre fattori funzionano.
Partiamo dal primo. Mi sembra che nel panorama italiano della classe docente ci siano ancora sacche resistenti di tendenza al nozionismo, di indisponibilità a lavorare per competenze (non quelle professionalizzanti, intendiamoci, ma quelle relative al problem solving, all’imparare ad imparare, alla transdisciplinarità vera etc). Quali le cause? Lavorare per competenze didattiche implica un carico maggiore di lavoro, dover abbandonare una routine didattica decennale, reinventarsi, creare un nuovo archivio di materiali, “sbattere la testa” su novità e sperimentazioni che non sempre o non subito funzionano; inoltre c’è chi confonde le competenze didattiche con quelle professionalizzanti, quelle che riducono il lavoratore a mero esecutore di compiti appresi, e pensa di “combattere il sistema” restando ancorato al passato.
A tali mancanze della classe docente aggiungo un uso non sempre appropriato del digitale, in quanto o le applicazioni talora sono snobbate per diffidenza, per paura che lo studente perda la sua autonomia, la sua capacità di organizzare il pensiero, di studiare in profondità, o talaltra sono usate come fine e non come strumento, avulse da un progetto didattico che abbia obiettivi e finalità specifiche. Invece, da ex animatore digitale, faccio distinzione tra gli applicativi digitali ormai “tradizionali” da un lato (per intenderci, quelli per la costruzione di mappe, presentazioni, infografiche, per archiviare, per somministrare test online, per gestire lavori di gruppo e così via) e IA e Metaverso dall’altro: i primi consentono allo studente di conservare e anzi potenziare la propria creatività, di essere utilizzatore attivo del digitale, che funziona davvero come un estensore delle sue abilità; IA e Metaverso, soprattutto per l’uso massivo che si vuole proporre a scuola, di fatto non stimoleranno gli studenti a una maggiore creatività, ma ad acquisire una mentalità più “tecnica” o ad adattarsi ad un mondo totalmente virtuale.
Infatti, quanto all’IA, l’intervento dello studente, e quindi l’apporto didattico dell’IA, sarebbe solo quello di saper fare le domande giuste per ottenere un certo risultato, il che significa demandare la creatività, l’organizzazione del pensiero, l’abilità di reperimento e valutazione/ selezione delle informazioni ad un software; quanto al Metaverso, c’è il fortissimo rischio di un suo uso pervasivo, che annullerà le esperienze dirette. Ciò non significa che queste nuove frontiere del digitale debbano essere ignorate dalla scuola, ma ritengo indispensabile che i docenti e i dirigenti facciano una riflessione per stabilire in che forme, modalità e quantità introdurre IA e Metaverso a scuola; personalmente, ne eviterei un uso come strumento didattico e avvierei una riflessione sugli usi possibili, vantaggi e pericoli.
A corollario, una riflessione sull’aggiornamento: spesso noi docenti ci aggiorniamo solo per il dovere di farlo, senza spinta o convinzione, perché stanchi, disillusi, disinteressati, ostacolati; questo di certo non ci consente di aggiornare in modo efficace il nostro metodo di insegnamento, il che non vuol dire rinnegare tutto il passato ma integrarlo, migliorarlo, dove necessario sostituirlo (valgono anche in questo campo le riflessioni già fatte in relazione al digitale).
Poi, la Scuola-azienda: se la logica è quella del profitto/apparenza/conquista di fondi e iscritti, un insegnamento di qualità, che prevede anche il ricorso a misurazioni insufficienti e a tutto quel che ne deriva, risulta impopolare, e ciò diventa un ostacolo per un progetto didattico che preveda la richiesta di uno sforzo e di un allenamento intensivo per superare limiti o difficoltà: tranne poche eccezioni, gli studenti hanno bisogno di essere stimolati a forzare i propri limiti per raggiungere obiettivi più alti, ma se si “abbassa la mangiatoia” sempre di più non si arriverà mai a “riveder le stelle”.
Infine le famiglie: se si demanda tutta l’attività formativa alla Scuola, non rendendosi conto che la formazione inizia con la nascita dell’individuo e presenta aspetti, fasi, contenuti diversi, il lavoro dei docenti viene neutralizzato dal non lavoro o dal lavoro opposto delle famiglie (soprattutto se lo scopo è esclusivamente la promozione). È necessario educare anche le famiglie a comprendere obiettivi didattici e sistemi di valutazione, ad esempio far comprendere che il fatidico “sei”, soprattutto se “estorto” con la minaccia di ricorsi, non coincide automaticamente con una formazione completa e di qualità, con una garanzia di successo nella vita professionale, e che, al contrario, proprio l’errore, la caduta, che si concretizzano nel voto negativo, sono lo spunto per la correzione e il miglioramento e allenano alla gestione emotiva dei momenti critici; evidentemente, serve una comunicazione migliore, più strutturata, serve recuperare la fiducia delle famiglie.
Ma, purtroppo, ciò non dipende solo da noi docenti.